giovedì 31 dicembre 2009

Foto, non parole - 1

Tizi-n-TinififftValle del DrâaDromedarioLa seconda giornata a bordo dell'onesto Mitsubishi Pajero fornitoci dall'agenzia di noleggio si è snodata, ieri, tra il superamento del passo di Tizi-n-Tinifitt (foto in alto), a una cinquantina di chilometri da da Ourzazate, in direzione Sud-Est, un paesaggio fitto di gole e voragini che suggeriscono antichi dissesti tettonici nonché la presenza di notevoli corsi d'acqua che oggi, in parte, scorrono sotto terra. Quindi la magnifica Valle del Drâa (foto in mezzo), dove questo fiume viene in superficie e si sviluppa un'unica oasi lunga una cinquantina di chilometri e infine sosta a Zagora, dove ingaggiamo una guida per percorrere con sicurezza una pista che ci porterà verso Tata, si chiama Daoui, versione araba di David, è un ragazzo berbero di 24 anni che parla un ottimo francese pur non essendo mai andato a scuola, e che fino ai 14 ha fatto vita da nomade con la famiglia, nel deserto. Ci accordiamo anche per l'alloggio, in tenda, in un accampamento tra Zagora e Mahmid. Cena, più che discreta, compresa. Naturalmente, ho stretto un'amicizia particolarmente costruttiva coi dromedari di Daoui. Ecco Mabruk(foto in basso), l'altro è Massud.

mercoledì 30 dicembre 2009

Bello Morocco


 Vista da Ait BenhaddouOURZAZATE - Finalmente in Marocco: era ora. Un gruppo di amici cercava il sesto componente per completare l'equipaggio di una spedizione di una decina di giorni nel Centro-Sud del Paese a bordo di un fuoristrada preso a noleggio ed eccomi qui. Base a Marrakech, collegata a Milano con volo diretto. Prime note di merito: la spaziosità degli aerei della Royal Air Maroce l’efficiente gentilezza del suo personale; la velocità di consegna dei bagagli (e quella stessa del nastro trasportatore); la pulizia: dell'aeroporto, del centralissimo alberghetto e della gigantesca piazza Djemaa el Fna, una delle più famose del mondo, con i suoi acrobati, mercanti, incantatori di serpenti, cantastorie, musicisti e banchetti di specialità gastronomiche. La giornata di lunedì in giro per Marrakech che, pur essendo invasa da turisti in ogni epoca dell'anno, è riuscita a conservare la sua anima: impensabile non perdersi volontariamente nel dedalo di vie della Medina (città vecchia) e nel suo souq, suddiviso, come da tradizione, a seconda delle specialità commerciali e artigianali in vendita. A prescindere dal fatto che la maggior parte delle moschee non è accessibile ai non fedeli, città antica, cinta di mura di terra rossa, non è particolarmente ricca di monumenti imperdibili: ciò che è impagabile è la sua atmosfera. Una citazione e una visita vale il Jardin Majorelle, creato dall'omonimo pittore francese Jacques e poi acquistato dallo stilista Yves Saint-Laurent, scomparso qualche anno fa e che qui ha fatto spargere le sue ceneri: un incredibile e curatissimo giardino botanico dedicato in prevalenza alle piante grasse in mezzo a cui si erge una villa blu cobalto sede di un interessante Museo di arte marocchina. Il tour de forcetra i vicoli di Marrakech non ha potuto che concludersi degnqmente con una visita rigeneratrice nell'hammam: 10 dirham (meno di un euro) per l'ingresso, altri 10 per la custodia degli indumenti e 50 per un vigoroso e corroborante massaggio finale (opzionale). Questi i prezzi dell'hammampubblico, se poi uno desidera frionzoli e lussi, ma anche l'atonsfera posticcia di quelli privati, i volantini distribuiti ovunque sono prova di un'ampia scelta a prezzi decuplicati. Dulcis in fundo, la cena a uno dei banchetti allestiti (e poi smontati) a velocità prodigiosa a partire dal tardo pomeriggio in piazza Djemaa el Fna. Ieri prima tappa: dalla fertile piana attorno a Marrakech ai primi contrafforti della catena del Medio Atlante, in un repentino cambio di scenari, dalle cime boscose a picchi innevati, a vallate riarse e già desertiche che ricordano i canyon americani e altre verdeggianti e percorse da fiumi, fino al passo di Tizi n'Tichka e da lì verso i paesaggi quasi lunari dell'Anti-Atlante e poi le dune del deserto di sabbia dopo quello roccioso (chiamato hammada). Tappa d'obbligo, sulla strada per Ourzazate e da qui alle valli del Drâa e del Dadès, più a Oriente, Aït Benhaddou (foto in alto e sotto), una delle casbah meglio conservate dell'intera regione, tanto da essere stata scelta come set di una ventina di film tra cui "Lawrence d'Arabia", "Gesù di Nazareth" e, se non ricordo male, "Il vangelo secondo Matteo" di Pasolini. Per arrivarci occorre guadare uno uadi (fiume: in quel tratto un ruscello, ma per meno di un euro si può farlo in groppa a un asino evitando di togliersi le scarpe e bagnarsi i piedi) e poi salire una collina: a parte le case costruite con fango e paglia conservate con estrema cura, dalla cima una vista incredibile sui dintorni fino alle cime dell'Alto Atlante. Con l'aria tersa e il cielo luminoso come quello trovato ieri, uno spettacolo indimenticabile.Ait Benhaddou

domenica 8 novembre 2009

Ritorno nella Terra dei cachi. E dei macachi.


MacachiSe avevo lasciato Buenos Aires con delle impressioni non del tutto lusinghiere, e dettate principalmente dall'amore che nutro per quella città e dalla preoccupazione per un momento non facile per il Paese, non avrei mai pensato che mi sarei ricreduto così velocemente, rivalutandola, al primo impatto con la realtà italiota ancor prima di atterrare a Linate, il "City Airport" della Milano edizione Expo 2015. Impatto avvenuto attraverso la forzata convivenza con i passeggeri del volo in partenza da Francoforte, in buona parte connazionali dell'operoso ex Triangolo Industriale in trasferta d'affari, in rientro con l'ultimo volo utile per il fine settimana, e con i titoli dei quotidiani in omaggio: il Corriere e la Ri-pubblica. I primi gesticolanti, vocianti, scalmanati, attaccati al cellulare fino all'ultimo secondo utile prima del decollo a sparare cazzate fregandosene di chi sta intorno: essendo tutti dotati di auricolare incorporato, non si rendono neanche conto del chiasso che fanno, costringendo il personale di bordo a reiterare l'invito a spegnere l'apparecchio come fossero degli infanti alle prese col ciuccio; i secondi, intendo i nostri più "prestigiosi" quotidiani nazionali, con titoli altrettanto urlati ed esagerati sulla solita, eterna fuffa. Una scorsa di cinque minuti mi è bastata per rimpiangere di non essere altrove: Berlusconi che nega di aver mai pensato al Quirinale e di aver avuto relazioni con Noemi Letizia, e il suo impegno per la candidatura di D'Alema a ministro degli Esteri della UE; una pagina sull'uscita del libro di Bruno Vespa, annuale fatica dell'insetto di cui la prima puntata di anticipazioni era già comparsa sui giornali un mese fa quand'ero partito; una pagina di intervista a Don Merdé, il creatore del San Raffaele, già cappellano di corte di Craxi e ora anche confessore del puttaniere del Consiglio in carica; i contagi record, guarda a caso a Napoli, da virus "suino", dopo che per tutta l'estate ci hanno scassato gli zebedei con il vaccino e le misure in vista dell'emergenza imminente; la diffusione, altrettanto record, della cocaina in Italia; il taglio dell'IRAP, di cui si parla a vanvera da oltre un decennio; il via libera del CIPE a 8,7 miliardi di euro di spese per opere infrastrutturali, tra le quali il famigerato ponte sullo Stretto di Messina, con le cosche mafiose e 'ndranghetiste che, sentitamente, ringraziano mentre rimangono esclusi i finanziamenti per la banda larga di internet: e qui mi sovviene che in trenta giorni, tra Argentina e Uruguay (non sto parlando della Scandinavia) in qualsiasi parte mi trovassi, dalle Ande al più sperduto paese sulla costa uruguayana, ho sempre usufruito di una connessione wi-fi ad alta velocità gratuita in qualunque albergo, peraltro di categoria mai superiore a quella di un "tre stelle", e che comunque sarebbe stata presente in un buon numero di bar, ristoranti e luoghi pubblici. A questo punto ho chiuso con la rassegna-stampa e sono tornato a leggere il mio giallo. Svedese. E non ero ancora atterrato. Ieri mattina una mia amica mi ha chiesto com'era stata la prima sensazione di rientro in patria: scoraggiante e, al contempo, una conferma. Che in questo Paese il tempo sembra essersi fermato e non cambia mai niente, se non in peggio, per progressiva decomposizione. La prima impressione è stata di subire un furto: 22 euro da Linate in fondo a Corso Lodi, verso il Corvetto, un quartiere sostanzialmente adiacente, in un orario, le sette di sera, di traffico scarso in direzione centro. Altri 12 da lì in via Castel Morrone. Tre chilometri a dir tanto. Con l'equivalente sarei andato dal centro di Buenos Aires all'aeroporto internazionale di Ezeiza, a 50 chilometri di distanza e tornato indietro, pedaggi autostradali inclusi. La seconda: di viaggiare sulla superficie lunare. Perché se mi ero lamentato dei marciapiedi e delle strade di Buenos Aires dopo tre giorni di acquazzoni quasi tropicali, mi ero scordato dei crateri che ci sono a Milano e di come si riducano le strade dopo una sola mattinata di pioggia, evento nient'affatto straordinario ed emergenziale, dato che si è in pieno autunno, che si era verificato appunto venerdì. Altro che Expo e nuove linee della metropolitana. La terza: di essere capitato in un Paese di zotici. Ricevere un buongiorno o anche soltanto un saluto di risposta, all'entrata come all'uscita da un locale pubblico, in questa città è un evento rarissimo. Come già osservato più volte, il Barista Stronzo è una figura emblematica della Milano da bere (e da cancellare). Quando poi la cafonaggine si abbina alla sciatteria, sufficienza, malmostosità, discompiacenza e antipatia dell'addetta, apparsa dietro il banco dopo quasi cinque minuti e come se non bastasse anche piuttosto sporchetta, il tutto in un noto bar dall'evocativo nome di alba francese e che si picca di essere "alternativo", il desiderio è quello di andarsene da un'altra parte. Invito che peraltro mi rivolgono svariati conoscenti, che se da un lato si lamentano della situazione nazionale e di essere immersi nella cialtronaggine, dall'altra mi accusano immediatamente di essere un trombone, qualunquista e reazionario e di avercela su con tutto e tutti "a prescindere". Poi magari si tratta di quelli stessi che due settimane fa sono andati a versare l'obolo di due euro a cranio a quello che, oggi, 2009, per bocca del suo neosegretario ha il coraggio di proclamarsi partito dell'alternativa, e per dimostrare, inequivocabilmente, che chi vota per il PD è identico ai suoi dirigenti, i quali di conseguenza si merita. Uno si chiede se per raggiungere questo risultato fosse necessario sciogliere prima il PCI, poi il PDS, poi i DS per ritrovarsi ancora con Bersani, D'Alema, Fassino, Violante, Finocchiaro, Reichlin e compagnia bella fra i coglioni. Con Napolitano padre nobile e la benedizione della Binetti. In questa felice atmosfera di rientro, mi giunge dal Cono Sur come uno spiacevole strascico la notizia della degenerazione dello scontro tra il peronista sindacato dei camionisti e i quotidiani Clarín e La Nación di cui avevo parlato nel mio ultimo post argentino, con i primi che hanno mandato i propri automezzi a bloccarne i centri di stampa, senza che la polizia, complice, intervenisse e, il giorno successivo - festa degli edicolanti - i propri energumeni a impedirne la vendita nelle strade oltre che a rubarnee distruggere interi carichi. Nella foto sotto, uno striscione degli autori di queste formidabili imprese, benedette dai Kirchner.  Ai lati, i truculenti volti dei due Moyano, Hugo e Pablo. E' più forte di me, questione di imprinting: quando penso a un sindacato camionisti, una delle categorie più corporative che esistano sulla faccia della Terra sotto qualunque cielo si trovino, mi torna in mente che fu un loro sciopero a oltranza a dare la spallata finale al governo di Salvador Allende nel 1973 in Cile. Questa volta, nel Paese vicino, è quello che fa da puntello a un regime che diventa sempre più arrogante a aggressivo quanto più sta imputridendo. Con la speranza che soccomba in fretta, definitivamente.Camioneros


giovedì 5 novembre 2009

Considerazioni finali




9 de JulioBUENOS AIRES – Ultime ore nella capitale, in tempo per alcune brevi osservazioni. Pur rimanendo di gran lunga la metropoli americana più sicura (se si esclude il Canada) e quella in cui un europeo si sente più a suo agio, ho trovato Buenos Aires peggiorata rispetto a come l’avevo lasciata l’ultima volta che ci ero venuto due anni fa. Era stato in occasione delle elezioni presidenziali che avevano ratificato il passaggio di testimone tra Nestor Kirchner e la consorte Cristina, osannato dai nostri centrosinistrati presto orfani di potere come la riprova dell’onda lunga “progressista” nel “Continente desaparecido”, per dirla con Gianni Minà, fedele alla linea, sulla scia di Lula in Brasile, Bachelet in Cile, Evo Morales in Bolivia, quel gran democratico di Hugo Chavez in Venezuela per finire con la banda Castro sull’infelice isola di Cuba. Avevo espresso allora le mie perplessità sul nepotistico cambio della guardia alla Casa Rosada e il timore del prevalere delle pulsioni più populiste del peronismo, peraltro iscritte nel DNA del “movimento”, al di là dell’intento dichiarato dell’ex presidente di non interferire nel governo di Cristina e di dar vita a una forza politica che, finalmente, dopo sessant’anni lo superasse. E invece siamo ancora lì, con le metastasi che si propagano da questo cancro che tuttora affligge questo Paese, come da noi il fascio-catto-comunismo, del resto. Una volta riconosciuto a Nestor Kirchner il merito di aver guidato l’Argentina fuori dalla peggior crisi della sua storia, all’inizio del Millennio, le cose sono andate come temevo. Avenida Corrientes e ObeliscoL’ex presidente è andato avanti a governare nell’ombra (come in Russia l’Amico Putinalle spalle di Medvedev), in attesa di ripresentarsi al prossimo turno tra due anni e, dopo la sconfitta alle legislative del giugno scorso, ha prevalso la sindrome dell’accerchiamento e il sistema presidenziale si è incattivito, nel risoluto tentativo di consolidare le proprie posizioni di potere prima che abbia inizio la nuova sessione di lavori del Parlamento rinnovato, tra un mese, in dicembre. Ed ecco una serie di decisioni e forzature: dai prelievi fiscali sull’esportazione che hanno colpito soprattutto i produttori medio-piccoli del settore agroalimentare, alla recente legge sui media che ne accentua il controllo da parte del governo, soprattutto la pretesa di gestire senza filtri i fondi destinati alla “lotta alla povertà” (nascondendo e truccando peraltro i relativi dati statistici), individuando a proprio giudizio i bisognosi: si sta cercando di forzare la mano per approvare il relativo provvedimento legislativo da parte del Parlamento ancora con la maggioranza attuale. Perché questo sistema funziona e paga, come testimonia l’utilizzo finalizzato delle risorse del ministero dello Sviluppo Sociale, affidato guarda caso ad Alicia Kirchner, sorella dell’ex presidente e cognata di quello attuale, a favore delle “cooperative  sociali” nelle mani dell’intendenza kirchnerista, per lo più sindacalisti e piqueteros (coloro che bloccano le strade) vicinissimi al governo che gestiscono decine di milioni di pesos per lavori di dubbia utilità ma che danno lustro e consenso alla “presidenta” superando  d'autorità il livello di competenza provinciale. E, quel che più conta, assicurando al governo l'appoggio e la gestione della piazza, per compensare le sconfitte elettorali. Gli esempi sono quotidiani. Da quando sono tornato qui per due giorni un gruppo di non oltre 300 piqueterosha bloccato l’Avenida 9 de Julio (foto in alto), la strada più larga del mondo e anche la principale arteria della città: si tratta di aderenti a cooperative che risultavano escluse dai finanziamenti perché non integrate nel “sistema Kirchner”, insomma si sentivano discriminati nell’elemosina. La polizia si è ben guardata dall’intervenire nonostante fossero in buona parte a volto coperto e armati di mazze di ferro e randelli, e il blocco è stato tolto quando è stato loro garantito un sovvenzionamento autonomo, saltando gli intermediatori sindacali. In sostanza cooptandoli nell’intendenza presidenziale. Il giorno successivo, ieri, altro blocco, questa volta di fedelissimi della prima ora, nello stesso punto, all’altezza di Avenida Belgrano, di fronte al ministero dello Sviluppo Sociale, per solidarietà alla presidenza. Garrivano al vento bandiere rosse con l’effigie di Che Guevara e azzurre con quella dell’eterna Evita Perón. Sembrava di assistere a “Ritorno al futuro” e rivivere alcune sceneggiate anni Settanta, per fortuna senza i forsennati furori ideologici di allora. Che qui sono stati una delle cause di una dittatura bestiale durata sette anni e di 30 mila desaparecidos: una generazione sterminata. Avenida de Mayo e Casa Rosada sullo sfondoSempre di questi giorni il blocco della distribuzione fuori della capitale dei due principali giornali del Paese,Clarín e La Nación, guarda caso quelli più invisi al potere e maggiormente danneggiati dalla recente legge sui media (la cui approvazione aveva visto festeggiare davanti al Parlamento  a notte inoltrata, in barba ai lavori socialmente utili,  tre settimane fa, gli stessi personaggi rivisti ai blocchi stradali di questi giorni, con le stesse bandiere), ad opera del sindacato dei camionisti vicino ai Kirchner. Il pretesto: "convincere" autisti e lavoratori delle cooperative di spedizione a iscriversi al loro sindacato, capeggiato da Pablo Moyano, guarda caso figlio di quel Hugo più che discutibile personaggio a capo dell'onnipotente CGT e grande elettore dei Kirchner. Sempre dalle 11 di questa mattina, sciopero delle cinque linee della metropolitana per 24 ore, senza riguardo per fasce orarie “protette”, il che in un'area urbana di oltre 10 milioni di abitanti significa il caos assicurato, più una mezza dozzina di manifestazioni a vario titolo, ognuno con le proprie buone – o cattive – ragioni, ma è tanto per rendere l’idea della quotidianità. Sono questi alcuni degli aspetti che ho visto riprendere piede e che mi inquietano, così come un aumento dei questuanti, di coloro che sono costretti a dormire sui marciapiedi o nei giardini, in pieno centro e nella rassegnata indifferenza di chi passa; del senso di insicurezza: tema, questo, attorno al quale ruota ogni discorso con chiunque appena si fanno due chiacchiere. In tutto questo da un lato il governo tace, fa capire che gli si mettono i bastoni tra le ruote, minimizza e falsifica i dati: non solo quelli sulla povertà, come già detto, ma anche quelli sull’inflazione, sull’indebitamento e sulla criminalità; dall’altro giornali e TV danno fiato alle trombe e il risultato è un cane che si morde la coda, ossia un generalizzato senso di precarietà, diffidenza e talvolta paura che si autoalimenta e che si percepisce nell’aria. E non ha nemmeno senso invocare l’intervento delle forze dell’ordine, talmente corrotte e inefficienti da creare, se possibile, ancora più disagio e apprensione. Tutte situazioni che in Italia conosciamo bene e che vanno affrontate con rigore e lungimiranza, sapendo che non esiste alcuna bacchetta magica e che gli interventi in questo senso sono di lungo periodo, ma per il momento si preferisce fare una gran confusione in cui ognuno fa la sua rimostranza senza riuscire a vedere la situazione nel suo complesso e venire a capo di nulla. Per finire ho trovato la città pure più sporca, e perfino il livello calcistico si è notevolmente abbassato: la Nazionale si è qualificata di straforo ai Mondiali giocando in maniera penosa e Boca e River, le due squadre cittadine più blasonate e tra le più titolate al mondo, veleggiano a metà classifica nel campionato locale (a questo proposito, uno degli interventi tipicamente populisti della presidenza è stata la decisione di trasmettere sulle reti pubbliche, gratuitamente, tutte le partite del torneo, pagando i diritti più di quanto non fossero disposte a fare le emittenti private, salvando in questo modo i bilanci delle società e permettendo l’avvio del  campionato che era rimasto al palo: puro panem et circenses). Alcune cose, in compenso, non cambiano mai: le velocità folli a cui circolano i “colectivos” , con gli autisti delle decine di diverse compagnie che guidano a cottimo, e i loro percorsi demenziali; la endemica mancanza di spiccioli con cui pagare le suddette corse dei mezzi pubblici – ma i mini assegni di italica memoria, sempre anni Settanta, non li hanno ancora adottati -; le lungaggini e gli intoppi burocratici per poter cambiare valuta e le grassazioni sui prelievi bancomat. Però ci sono anche più librerie in questa città che in tutta Italia, perché qui la gente legge e si informa, come dimostra anche il numero di edicole e quello dei quotidiani esposti (camionisti sindacalizzati permettendo) e non si limita, a parte il calcio, a farsi rincoglionire dalla TV, peraltro di qualità di poco meno scadente di quella nostrana ma quantomeno non soggetta a duopolio-monopolistico. Alla prossima, dunque, e suerte, Argentina! (qui sotto, il Cabildo, la municipalità)Cabildo de Buenos Aires

mercoledì 4 novembre 2009

I paseaperros: la città e i cani

LBUENOS AIRES - Una delle istituzioni più simpatiche di questa città è il "paseaperros", ossia passeggiatore di cani dietro modico compenso. I porteños hanno una predilezione per i quattro zampe, di tutte le razze e di ogni dimensione, ma perlopiù ragguardevole, e da una ventina d'anni la figura del ragazzo, ma anche della ragazza, dotati di polso di ferro e muscolatura di braccio e spalla da tennista, fa parte del panorama urbano. Aveva fatto la sua comparsa negli anni Novanta, e a dedicarsi a questa attività erano generalmente studenti; con la crisi del 2001/02 e degli anni seguenti ha preso piede e qualcuno ne ha fatto una professione. Oltre che organizzati e puntuali, bisogna essere affidabili e dotati di una particolare abilità: io non ho mai visto, anche quando i cani raggruppati sono una quindicina, che si azzuffassero. Sono sempre felici, sembrano quasi sorridenti e si affezionano ai loro padroni part-time, che evidentemente ci sanno davvero fare se riescono da un lato a trattenerli, non farsi saltare addosso nemmeno per essere salutati e "lavati" e farli camminare alla stessa andatura, dall'altro a evitare che defechino sui marciapiedi. E' incredibile come le tipiche veredas di cotto di Buenos Aires, per quanto divelte, non siano mai lorde di escrementi e i cani sembrano aspettare di essere giunti in una zona verde opportunamente adibita. Così come non ho mai visto animali aggressivi, eppure abbondano rottweiler, dobermann, pastori tedeschi che che da noi seminano il panico, probabilmente perché in mano a gente incapace di allevarli. I paseaperros entrano in azione generalmente a metà mattinata, e li si vede in giro fino al tramonto non solo nelle zone residenziali e benestanti della parte settentrionale della città, Barrio Norte, Puerto Madero e dintorni, dove naturalmente abbondano, ma anche in quelle popolari e piccolo borghesi come San Telmo, dove abitualmente soggiorno e dove ho scattato queste due foto, in calle Perú, a qualche minuto di distanza. Dopo la paziente ed educata attesa che l'addetto completi la raccolta dei partecipanti alla gita, a giudicare dall'espressione soddisfatta alla partenza verso la quotidiana sgambata collettiva nel parco sono sicuro che si divertano un mondo. E nel frattempo è spuntato pure il sole.L

lunedì 2 novembre 2009

A Buenos Aires, con l'intercessione della Difunta Correa e del Gauchito Gil

UrquizaBUENOS AIRES - Dopo 18 ore di viaggio, grazie alla protezione della Difunta Correa e all'intercessione del Gauchito Gil, sono riuscito a tornare sano e salvo nella capitale, in vista del litorale e dell'ormai prossima attraversata dell'Atlantico in direzione Est, e inverno. Partenza alle 2 di ieri pomeriggio da Chilecito, temperatura di "appena" 39 gradi, la discreta aria condizionata della corriera era una giusta contropartita di fronte alla lunghezza della tratta, se non fosse che, durante una serie di soste lungo le statali Rutas Nacionales 40 (la "mitica") e 74 per raccogliere i passeggeri che dai paesi oli e vitivinicoli della valle compresa tra le sierras di Famatina e di Velasco si recano a Córdoba o nella capitale federale, il mezzo cominciava a dare segnali di problemi meccanici o, chissà, elettrici. Spegnimento del motore al momento di ripartire, un procedere affannoso a marce basse; due, tre volte, con relativo spegnimento dell'aria condizionata e immediato senso di claustrofobia e cottura delle meningi. Finché a Patquia, un villaggio fantasma dotato però di terminal, e caricate alcune persone, sempre proseguendo arrancando il bus è uscito dalla carreggiata per avventurarsi, per di più in leggera discesa, presso un chiosco, peraltro chiuso, dove gli autisti sono scesi a confabulare con la padrona. Gran gesticolare, e quest'ultima richiude la porta. Altro giro al terminal, nessuno che si premuri di dire alcunché. Si riprende la strada? No, altra escursione nella pista sabbiosa a altra sosta vicino al chiosco. Si aprono le porte, la maggior parte di noi scende. Per fortuna ci sono due alberi: per il resto la desolazione. Carcasse di auto, rottami di ferro di ogni pensabile provenienza ma ecco il salvatore: il proprietario di questa specie di discarica possiede una potente saldatrice e risolve il problema, che era semplicemente la leva del cambio, spezzata. Ossia inservibile, perché ne era rimasto un moncone. Il terrore era corso sul volto di tutti, non tanto per il ritardo, o addirittura il mancato arrivo e tutte le complicazioni del caso, ma per un pensiero fisso: la calura massacrante. Tutto bene, dunque: nonostante un'oretta persa, a Córdoba si è giunti poco dopo le 10 di sera con soli 20 minuti di ritardo, dopodiché cambio della coppia di autisti e via verso Buenos Aires, dove si è arrivati stamattina alle 8, puntualissimi, nonostante gli acquazzoni violenti che si sono abbattuti tra Córdoba e la costa per tutta la notte. Allagamenti anche in città, dove da tre giorni si va avanti così, ma almeno la temperatura è tornata normale: 20 gradi anziché 37, perché anche qui non si scherzava ed erano decisamente troppi per essere a metà primavera. Dicevo dei numi tutelari delle strade argentine, perché avventure a lieto fine come questa fanno pensare a cosa può capitare quando si ha un guasto in qualche landa desolata e assolata del Nord Ovest (ma anche la traversata del Chaco non è male) o battuta dal vento e ghiacciata in Patagonia, dove per mezza giornata non incontri nessuno, perché hai voglia di dire che oggi ci sono i cellulari, ma in ampie zone quel che manca è la copertura. Una, la principale, è la Difunta Correa, una "beata", riconosciuta dalla popolazione per i miracoli, non a caso protettrice dei camionisti, di cui esistono migliaia di tempietti lungo tutte le strade del Paese, da Iguazú a Ushuaia.Difunta CorreaIl principale, a Vallecito nella provincia di San Juan, poco lontano dalla zona del nostro guasto, comprende 17 cappelle e attorno è fiorito un indotto di alberghi, ristoranti, negozi, trasporti nonché gli uffici dell'associazione no profit che amministra il santuario, nonostante l'aperta avversione della chiesa cattolica e del governo. Il personaggio è esistito realmente, si chiamava Deodolinda Correa e, durante le guerre civili della metà dell'Ottocento, seguiva, assieme al figlioletto, nella campagne riarse della zona, il battaglione del marito malato che era stato coscritto. Terminate le scorte di viveri, fu trovata morta sul ciglio della strada ma il figlio era ancora vivo, attaccato al suo seno che dava ancora latte. Da lì il culto, e ancora oggi il dovere per chi passa davanti a un tempietto di rifornirlo di bottiglie di acqua o di altre bevande: se ne vedono cumuli multicolori alti un metro, a volte. Più "regionale", legato al Nord, il culto del Gauchito Gil, anch'esso personaggio reale, un gaucho di nome Antonio Gil, di cui si sa che nacque attorno al 1840 e  di sicuro la data della morte: l'8 gennaio 1878 per impiccagione a Mercedes. Varie le storie che si intrecciano sulle sue origini, però sicuramente prese parte come volontario nella guerra contro il Paraguay - si dice per sfuggire a un poliziotto della cui fidanzata si era invaghito - e poi fu richiamato nell'esercito federalista ma disertò per motivi politici, perché apparteneva al partito "colorado" (di qui i drappi rossi che adornano sempre i suoi tempietti), e insieme a due compagni si dedicò all'abigeato condividendo il bottino coi poveri. Catturato, fu impiccato, ma prima di morire disse al suo boia che, se avesse provveduto a seppellirlo - pratica che ai tempi era vietata per i disertori -, avrebbe interceduto in favore di suo figlio che era gravemente ammalato. Dopo averlo impiccato, il boia recise la testa di Gil e la portò nella città di Goya, ma quando scoprì che il figlio era stato davvero sul punto di morire, ed era miracolosamente guarito, la riportò a Mercedes per seppellirla assieme al corpo del "traditore". Ed ecco pronto un altro membro del santorale profano di queste parti: le offerte ai suoi tempietti, che come quelli della "Difunta Correa" si trovano ai margini delle strade, sono di tutti i generi: sigarette, bottiglie di grappa, abiti da sposa, bamboline, targhe di auto, perfino coltelli e, talvolta, pistole. Quando se ne incrocia qualcuno, bisogna suonare il clacson in segno di saluto, pena disagi sul percorso, o perfino non giungere a destinazione. Nei dintorni di Chilecito, prima di partire, ne avevo giusto fotografati alcuni e, opportunamente, riveriti...Gauchito Gil

giovedì 29 ottobre 2009

Samay Huasy Chilecito

ChilecitoCHILECITO - Pubblico questa bella foto tratta da Wikipedia anziché una scattata da me perché rende appieno la luminosità dell'aria in questo angolo del Nord-Ovest argentino che è diventato il mio buen ritiro in questi ultimi giorni. E si vede molto meglio che in questi giorni di canicola la Sierra de Famatina innevata, mentre ora lo sono soltanto le vette più alte (6250 metri). Dopo tre settimane di moto perpetuo, evidentemente avevo bisogno di fermarmi a riposare e a rilassarmi e questo si è rivelato il luogo ideale per farlo. Non era programmato: qui ci ero venuto essenzialmente perché la cittadina è più vicina che non La Rioja al Parco Nazionale di Talampaya e alla celebre Valle de la Luna, ma siccome sono pressoché l'unico turista in zona non dotato di mezzi propri, non è stato possibile partecipare ad alcuna escursione per mancanza del numero minimo necessario, a meno di non accollarmi un centinaio di euro di spesa, che da queste parti sarebbero uno sproposito: l'equivalente del soggiorno per quattro giorni nel migliore albergo del posto, anche una questione di buon gusto, per cui vi ho rinunciato.Samay HuasiSenza grossi rimpianti: perché da un lato è un'ottima scusa per tornare a transitare da queste parti la prossima volta che verrò in Argentina, in una stagione più "movimentata", dall'altro perché mi è piaciuto e mi ha ritemprato farmi avvolgere dall'atmosfera sonnolenta di Chilecito e adeguarmi ai suoi ritmi rilassati. Che sono anche una necessità, con le temperature abituali in questi paraggi: ieri si sono raggiunti i 45 °C all'ombra e, alle 9 di sera, nella piazza centrale, sotto le fronde degli alberi, se ne registravano ancora 38. Ho centellinato, quindi, le attività da intraprendere in loco,  rigorosamente al mattino. L'altroieri, come raccontato, visita al Museo e alla stazione di partenza del Cable Carril (integrata da una visita alla seconda stazione, chiamata Durazno, a quasi dieci chilometri di distanza, già a quota 1539 metri, effettuata però in taxi), ieri alla Casa-Museo Samay Huasi e oggi alla Cooperativa Vitivinicola La Riojana. Samay Huasi in quechua significa casa di riposo, e si trova in una splendida posizione ai piedi delle colline riarse che stanno ad arco sul lato Est di Chilecito, e lo è tutt'ora, per "scrittori ed artisti", di proprietà dell'Università Nazionale de La Plata, fondata dall'eminente giurista, scrittore e politico Joaquín Victor González, ai tempi in cui era ministro dell'Istruzione, nel 1897. Nato a Nonogasta, nei pressi di Chilecito, nel 1863, a 26 anni fu il più giovane governatore della provincia de La Rioja, in seguito si trasferì nella capitale federale, ma nel 1913 stabilì qui, guarda caso, il suo buen retiro: evidentemente il luogo ispira a questo. Comprò una "casona" coloniale, circondata da 17 ettari, chiamata ai tempi "La Carrera", da un amico inglese che si occupava di estrazione mineraria ed era appassionato di cavalli e la convertì in un una finca coltivata a vigne e roseti, la sua passione, ribattezzandola appunto Samay Huasi. Se la godette solo per una decina di anni, perché morì di cancro nel 1923, ma restò di proprietà dell'Università, che ancora oggi la utilizza come foresteria per soggiorni di docenti e studenti, nazionali e stranieri, nonché di chi faccia richiesta (direttamente a La Plata e non qui, per chi fosse interessato).Vigneti Samai HuasiUn incanto: garantisco che dopo una camminata sotto il sole cocente per raggiungerla, circondata da alberi esotici e vigne, stato come entrare in una specie di Eden. Oltre alle stanze abitate dal fondatore, con l'arredamento d'epoca, le camere ricavate nelle ex stalle, sotto un'ombreggiato porticato, e un museo con esposizioni sia permanenti sia temporanee: un'oasi di pace. Questa mattina invece non potevo mancare all'ennesima visita di una bodegavinicola, in questo mio percorso, ma questa volta si trattava di una orgogliosa e rinomata cooperativa, che raccoglie oltre l'80% dei viticoltori della provincia (quelli medio-piccoli), La Riojana, che vinifica anche per alcuni produttori di Mendoza, Catamarca e San Juan. Fondata nel 1940, i suoi enormi tini di cemento risalgono all'epoca, e ad essi si sono aggiunti alcuni più piccoli per le produzioni di punta. Orgoglio della Rioja, il torrontés, il più tipico vino bianco argentino, fruttato ed erbaceo, aromatico e al contempo secco, a mio parere insuperabile con le le meravigliose empanadas criollastipiche del Nord-Ovest argentino. Ha fatto seguito una soddisfacente degustazione. Dopo una doverosa siesta, e con in mano un bicchiere del suddetto, un salut a tutti e vado a predispormi per l'ultima cena ai piedi delle Ande. Domani si torna verso il litorale, a Buenos Aires!Barriques La Riojana

Chilecito e il Cable Carril Famatina



Cablecarril 1ª stazioneCHILECITO - Fondata nel 1715 da Domingo de Castro y Bazán col nome di Villa Santa Rita, la seconda città della provincia de La Rioja per numero d'abitanti, 30 mila, era rimasta poco più di un villaggio fino a che all'inizio del secolo scorso non si sviluppò l'industria estrattiva, e da qui anche suo nome odierno, letteralmente "Piccolo Cile", per il gran numero di cileni che attraversarono le Ande per lavorare nelle miniere locali. La presenza di minerali pregiati come oro, argento e rame nella zona di El Famatina era già nota alle popolazioni locali dai tempi dell'impero degli Inca (Fama deriva dawama che significa madre, ossia produttore e Tina da tinac, metallo), ma furono gli spagnoli a dare un primo impulso a una rudimentale forma di attività mineraria, fino al suo decollo con l'arrivo della ferrovia da Córdoba nel 1899, che permise alla popolazione locale dedita principalmente alla produzione ortofrutticola e vinicola, di collocare i propri prodotti sul mercato nazionale. Rimanevano però lontane dallo sfruttamento ottimale i giacimenti del Famatina, che distanti 35 chilometri e a 4600 metri d'altezza, in una zona dov'era impossibile far passare la rotaie. Fu così che si pensò di superare l'ostacolo grazie grazie a una funivia che superasse i 3500 metri di dislivello tra Chilecito e le miniere e venne promossa una gara d'appalto che fu vinta dalla ditta tedesca Adolfo Bleichert & Co di Lipsia, che iniziò i lavori nel febbraio del 1903. Ed ecco il Cable Carril Famatina.Cablecarril e miniera FamatinaAlcune cifre: 35 chilometri, come detto, 3510 di dislivello, 9 stazioni di cui l'ultima, "la Mejicana", a 4603 metri d'altezza, 9 stazioni, 262 torri per sostenere i doppi cavi (uno "portatore", con un contrappeso di 20 mila kg, il secondo "trattore", a velocità costante, azionato da un motore a vapore con caldaia a legna) che trasportavano vagoncini del peso di 250 kg, con altrettanto di portata. Questa fenomenale opera ingegneristica, unica nel suo genere, fu inaugurata neanche un anno e mezzo più tardi, il 29 luglio del 1904. Merci, minatori e scorte impiegavano 4 ore per compiere il percorso.L'impresa che aveva in concessione lo sfruttamento della miniera era l'inglese "Famatina Development", e con lo scoppio della Grande Guerra la collaborazione anglo-tedesca ebbe termine e la linea cominciò a cadere in declino. Divenuta proprietà dello stato argentino, finì in disuso nel 1927. Oggi a Chilecito rimane un museo, interessantissimo, che si trova presso la stazione di partenza, dove venivano "lanciati" i vagoni.CablecarrilNonostante si tratti di un sito dichiarato con enfasi Monumento Nazionale, né a livello federale né provinciale arriva un peso, o meglio se ci sono si perdono nei rivoli della "mangiatoia", mi hanno assicurato i ragazzi che tengono in perfetto ordine i cimeli, che vengono pagati dal municipio locale. Reperti tra cui una splendida cassaforte in legno massiccio, scrivanie, documenti, un telefono portatile dell'epoca e perfino la prima macchina per scrivere elettrica, sempre di quegli anni, una Remington se non ricordo male. L'ex presidente Menem, per giunta riojano, dopo aver svenduto e dismesso il patrimonio ferroviario nazionale, unico nel Continente, aveva anche pensato di rottamare questo splendore, che sarebbe ancora perfettamente in grado di funzionare, con un motore a scoppio o elettrico, vendendo il tutto come ferraglia. Il demenziale intento è stato scongiurato in tempo. Una visita a 38 gradi all'ombra, alle 10 del mattino, ma che da sola valeva quasi il viaggio fino a qui. Dove, come mi ha suggerito una persona che mi è particolarmente cara dopo aver visto una foto che le avevo inviato, potrei vedere spuntare da un momento all'altro Quentin Tarantino, spuntando dalla scena di un film di Sergio Leone che lui puntualmente cita, o anche i fratelli Coen dell'ultimo, geniale "Non è un Paese per vecchi".Stazione d

martedì 27 ottobre 2009

La Rioja, fra chivitos, vino, Tinkunaco e siesta di rito

LA RIOJA - Nella lenta marcia di riavvicinamento alla sponda atlantica, anche in questa occasione non poteva mancare una puntata nel Nord-Ovest argentino, nel cuore di quella parte andina dove si comincia a respirare un'atmosfera più coloniale e indigena al contempo. Oltre che dal paesaggio, che qui ricorda decisamente quello degli spaghetti western di Sergio Leone, lo si nota dai tratti sempre più indiani della gente nonché dai ritmi di vita e dai cibi stessi. Il manzo delle pampas è sostituito dalla capra, l'onnipresentechivito (nella foto in alto, ecco come si presentava l'autogrill o, meglio, laauto-parrilla lungo la Ruta Nacional 141 ieri durante la pausa-pranzo del bus che collega San Juan e La Rioja), tamaleshumitas ed empanadas prendono il posto delle paste d'origne italiana, e il piatto regionale è una squisita zuppa, il locro, dall'aymara luxro, che si trova da qui fino in Ecuador, là dove è nata e permane la cultura, e la coltura, del mais, come del fagiolo e della patata. Comune con la confinante regione del Cuyo la dedizione alla viticoltura: nonostante non raggiunga i livelli di produzione della zona di Mendoza, la qualità è in compenso sorprendentemente alta. Dopo 8 ore e 45 minuti di viaggio (è incredibile quanto riescano a essere efficienti e puntuali i trasporti su gomma in questo Paese) sono dunque giunto a La Rioja, la capitale della provincia omonimaConvento de San Domingo(quella che disgraziatamente diede i natali all'ex presidente Carlos Menem), 150 mila abitanti, una città molto piacevole, dall'aspetto in buona parte coloniale, circondata dalle cime della Sierra de Velasco, dal nome delhidalgo che la fondò, nel 1591, con il nome di Todos los Santos de la Nueva Rioja. In questa zona la conquista spagnola non fu violenta, perché la tribùdiaguita, che abitava la zona, si conciliò presto con gli europei che stavano occupando le terre che coltivavano da sempre. Si evitò il conflitto grazie alla mediazione di Francisco Solano, un frate, e i diaguita deposero le armi a patto che si dimettesse l'alcalde (sindaco) spagnolo, per essere sostituito da Gesù Bambino. E il Niño Jesus Alcalde, la cui riproduzione si trova tutt'ora nella chiesa del convento di San Francisco, divenne il primo sindaco della città e ancora oggi gli è riconosciuta, simbolicamente, la carica. Pressoché da allora, si rinnova la cerimonia del Tinkunaco (in quechua: incontro), che si tiene il 31 dicembre di ogni anno: due processioni, di spagnoli e diaguita, i primi abbigliati con abiti religiosi e uniformi, i secondi con fasce nei capelli eponcho, che al momento dell'incontro cadono simultaneamente in ginocchio davanti all'effigie del Niño Jesus Alcalde e poi si abbracciano. Il che dimostra che qualche volta il buon senso, e anche un po' di superstizione, evitano inutili spargimenti di sangue e risolvono le contese, insegnando che a questo mondo, volendo, c'è spazio per tutti. Siesta d'obbligo, da queste parti, durante le ore pomeridiane, dove già ora, in primavera, le temperature superano i 35 gradi e tra le 13 alle 17 non c'è un negozio aperto e si bloccano quasi tutte le attività. La città possiede anche il più antico monastero di tutta l'Argentina, quello di San Domingo (nella foto sopra, il patio), l'imponente cattedrale di San Nicolás de Bari (sì, il "nostro", oggetto di particolare devozione da parte dei riojani), costruita in uno strano stile "bizantino", e alcuni bei musei, tra cui spiccano quello Folklórico (foto qui sotto) e quello di arte sacra e lo Inca Huasi, gestito dai monaci e che accoglie una ricca raccolta di ceramiche precolombianePatio Museo Folklorico La RiojaFlorida la produzione artigianale: i tessuti in particolare, con tecniche indigene e influssi spagnoli negli accostamenti cromatici e nei motivi, così come l'argenteria, dove la tradizione iberica è più marcata, mentre al contrario sono di impronta nettamente indigena le ceramiche. E, analogamente a quella spagnola, anche la Rioja dell'emisfero australe, è rinomata per la sua vocazione vinicola, con risultati eccellenti, per la mia gioia. 

domenica 25 ottobre 2009

Serata milonguera con Soledad



MENDOZA - Quando si dice un vero "recital", nel senso letterale del termine. E' quello a cui ho assistito ieri sera all'Auditorio Angel Bustero, protagonista Soledad Villamil, che insieme ai quattro musicisti che l'accompagnano ha presentato il suo secondo album "Morir de amor". Un excursus sul tema, in tutte le sue sfaccettature, attraverso un accurato repertorio di canzoni che raccontano come si vive, si soffre e, perfino si "muore" per amore. La poliedrica artista platense, che ho avuto modo di apprezzare di recente in "El secreto de sus ojos", nata come musicista e affermatasi come attrice di teatro, cinema e televisione, segue il cammino intrapreso nella sua prima raccolta di due anni fa (premio Carols Gardel 2008: più di un "Grammy" argentino) attraversando con Soledad Villemil disinvoltura tanghi, milonghe, valsaschacareras, boleri che, nelle sue personalissime versioni, acquistano forza e prendono nuova forma e vita. Tra gli autori, Luis Amadori, Francisco Canaro, Miguel Caló, Charlo, Azucena Maizani, Homero Manzi, Idea Villariño, Alfredo Zitarrosa oltre ad alcune composizioni proprie, tra cui quella che dà il titolo all'album, ispirata a una poesie di Jorge Luís Borges. Le qualità dell'attrice le permettono di aggiungere forza interpretativa a una voce calda e squisita, ma senza alcuna esagerazione e senza calcare i toni, anzi: come ho spesso notato da queste parti, è tale il rispetto per la propria musica nazionale, che le interpretazioni sono assolutamente sobrie e mai sopra le righe o coperte di toni melodrammatici ed esagerati, c'è una certa misura perfino nelle pagliacciate approntate per i turisti (e non era certo questo il caso), molto lontane dall'immagine a cui può indurre il luogo comune. Nessuna sceneggiata, dunque, e nessun divismo e nemmeno protagonismo fuori luogo, semplicità assoluta anche nell'abbigliamento e nel modo di interloquire col pubblico. Ad accompagnarla, un quartetto di chitarra, percussioni, contrabbasso ebandoneón, strumento immancabile in un congiunto musicale porteño. Felice di avere recuperato questa esibizione, che mi ero purtroppo perso per un pelo due settimane fa al "Torquato Tasso" di San Telmo, a Buenos Aires (e questo aveva influito non poco sulla scelta di Mendoza come prossima meta), concludo parafrasando il buzzurro, mentecatto e repellente individuo che ci governa (e nessuno ci invidia: qui dicono "parecido al inomináble", intendendo Menem. Ossia: uguale): perfino più intelligente, e brava, che bella. Ed è tutto dire, con quei magnetici occhi verdi.

venerdì 23 ottobre 2009

A zonzo in una giornata di zonda tra vigneti e uliveti di Mendoza

MENDOZA - Lasciata la “Banda Oriental” in traghetto e fatta sosta per mezza giornata a Buenos Aires durante una giornata di pioggia dalla parvenza molto più autunnale che primaverile, ho ripreso il cammino verso Ovest con meta una zona dal clima e dall’aspetto quanto mai diverso: Mendoza, ai piedi della precordigliera andina, appena dietro alla quale si stagliano le vette più alte d’America, clima secco, temperature pressoché estive. La regione a vocazione vinicola per eccellenza dell’Argentina: il 70% della produzione nazionale (la quarta al mondo) avviene qui, per una serie di fattori che ne fanno una zona ideale, nonostante il terreno pressoché desertico, per una serie di ragioni, a cominciare dalle caratteristiche organiche del terra stessa. Innanzitutto l’irrigazione costante, assicurata da un sistema già noto agli indios huarpe, ripresa e perfezionata dai coloni europei: ora è assicurata anche dall’invaso artificiale di Potrerillos, 12 chilometri di lunghezza per 1,5 di larghezza e 300 metri di profondità, capace di “coprire” ben cinque anni di siccità, il tutto con un’acqua di qualità eccezionale, qual è quella dei ghiacciai e nevai andini. Ultimamente, oltre al sistema tradizionale “ad allagamento”, con paratìe Bodegas Lagardemobili lungo i canali, viene usato quello computerizzato a gocciolamento con sensori di umidità, per mezzo di canaline che corrono lungo i vitigni e sgocciolatori per ogni pianta, un investimento costoso ma estremamente redditizio ed “eco-compatibile” a lungo termine. Secondo punto a favore, la diversità delle altitudini, tra i 900 e i 1800 metri, ognuna ideale per un vitigno in particolare. Il terzo, la forte escursione termica. Il caldo diurno favorisce l’accumulo di zuccheri e l’ispessimento della buccia, il freddo notturno garantisce la giusta acidità all'uva. Infine, il clima secco diminuisce l’esposizione delle viti a funghi e parassiti. La capitale, Mendoza, oltre un milione di abitanti con i suoi sobborghi, è una città elegante, vivace, ricca, ricostruita con intelligenza dopo un terremoto violentissimo che la rase al suolo nel 1861: siamo in una zona estremamente sismica. Il centro è stato spostato a Sud-Ovest rispetto alla situazione originale, il sistema urbanistico prevede vaste piazze, sempre dotate di fontane, sistemate in modo strategico, e strade ampie, in modo da poter raccogliere la popolazione in fuga dalle case, costruite in modo solido e con tutti i criteri antisismici dell’epoca di costruzione. Oltre a questo, un ulteriore polmone verde è garantito dal Parque General San Martín (el Libertador: che qui organizzò il suo esercito): 420 ettari tenuti in maniera eccezionale. Tutto ciò ne fa una città ariosa, con una bella vista sulle precordigliera e anche su alcune delle vette più alte delle Ande: l’Aconcagua, con i suoi 6962 metri la più alta cima delle Americhe non si vede, ma il vulcano Tupungato, a quota 6650 sì. Conoscevo già Mendoza, dov’ero venuto in piena estate una dozzina di anni fa, e mi era piaciuta molto: ho colto così l’occasione per fermarmi qualche giorno e approfittare di un clima più propizio per la visita delle “bodegas” di vino, escursione intrapresa quest’oggi. San Juan de Cuyo e Maipú, note anche in Europa, si trovano già a pochi chilometri dal centro: ci si arriva comodamente in bus, anche se qualche pazzo, in una giornata di “zonda” come oggi, il giro lo fa in bicicletta. Lo (o la?) zonda è simile al föhn o favonio che da entrambi i versanti delle Alpi si abbatte ad esempio su Milano o Monaco di Baviera, un vento caldo e opprimente che rincretinisce chi è particolarmente sensibile. E disidrata in maniera notevole. Qui si forma sul Pacifico, si “scalda” passando sulle cime delle Ande e scendendo sui barrancos (dirupi) e pianure mendocini e soffia in genere per una giornata. Le nuvole cariche di umidità a loro volta si raffreddano e puntualmente piove o nevica sulle cime e la notte stessa o il mattino dopo la temperatura (oggi sui 32 °C) scende di 7-8 gradi. Solo un mese fa, a primavera iniziata, in città in un caso analogo erano caduti 10 centimetri di nevem fatto del tutto eccezionale. Per il tourenologico, la mia scelta è caduta su due bodegas “industriali”, che usano tecniche e attrezzature moderne e sofisticate, e due artigianali, a conduzione famigliare, di cui una dedita a produzione esclusivamente organica. In comune i vitigni coltivati: malbec (il principe dei vini di Mendoza), merlot,cabernet sauvignon e syrah per i rossi (talvolta vinificati in bianco con metodo charmat o champenois); sauvignon e chardonnay per i bianchi. L’argentinissimo torrontés, invece,  è tipico della regione de La Rioja, dove mi riprometto di recarmi tra qualche giorno. Alle Bodegas Lagarde di San Juan (fondate nel 1897 da un ex militare portoghese e passate alla famiglia di imprenditori locali Pescarmona), dove ho anche fatto un ottimo pranzo, ho trovato un eccellente viognier bianco, da vitigno importato nel 1990 dalla Francia, zona Côtes di Rhône, di cui ignoravo l’esistenza, e che si è adattato a meraviglia qui, mentre dai Cecchin (in alto l'insegna), di cui ho avuto il piacere di conoscere l’ottuagenario Jorge in splendida forma, che col fratello Pedro ha fondato l’azienda a conduzione famigliare nel 1959 (il padre era di Castelfranco Veneto), ho trovato anche un sorprendente moscadel alexandria, con un amarognolo fondo di mandorla, e due rossi di vitigni d’origine spagnola, il graciano e il cariñán, rispettivamente della Rioja e dell’Aragona (carignano in Italia). Questa bodega è quella dedita al “full organic” e da qualche anno sono la prima in Argentina a produrre vino senza solfiti. Si usano, ma non per tutti i vini, passaggi in barriques, (in rovere francese per quelli più raffinati, o in quello più grezzo, americano) dai 3 ai sei mesi, a un anno e talvolta oltre, in percentuali variabili, dal 40 al 50%, in alcuni casi al 100%, per quelli di più alta gamma. Esistono però anche vini da taglio, sia tra diversi Zoservitigni sia tra diverse zone di produzione. Una delle due aziende industriali, la Flichman, fondata nel 1880 da una famiglia di origine russa, ora in mani portoghesi  (la SOGRAPE che produce il porto Ferriera e il Mateus) è proprietaria ad esempio di qualcosa come 600 ettari in pianura, nella  zona detta “Barrancas” e di altri 300 nella valle di Uca, a 1100, ai piedi del  vulcano Tupangato) per un totale di 17 milioni di litri all’anno. Diversificazione del “rischio” (ad esempio grandine) e della qualità: più in alto si danno vini più fruttati, in caso si fanno del “blend” con quelli di pianura, più robusti. Degustazioni a tutto spiano, a metà pomeriggio, opportunamente benzinato(cfr foto a latere), sognavo soltanto un letto ma una provvidenziale visita a un oleificio fondato nel 1906 (dieci ettari, magnifici olivi d’epoca), con tanto di assaggio di extravergine su pane casereccio e con pomodori secchi mi ha rimesso in sesto, pronto alla visita finale a un’altra azienda famigliare, quella di Don Arturo, con una rispettabile produzione di 1.750.000 bottiglie l’anno (meno di un decimo della Flichman, per intenderci) che si concentra sul consueto poker di rossi: malbec, merlot, cabernet e syrah, di cui il 90% si vende in loco e il 10% viene esportato direttamente negli USA. Che dire, signori: salut e buona domenica!

mercoledì 21 ottobre 2009

¡Hasta pronto, Uruguay!

Casco históricoCOLONIA DEL SACRAMENTO - Ultima tappa in Uruguay a Colonia del Sacramento, di fronte a Buenos Aires, da cui è separata soltanto dai 50 chilometri del Rio de la Plata, questa l'ampiezza dell'estuario in questo punto, un'ora di traghetto. La città, che già conoscevo, tende in tutto onore al suo nome: testimonianze dell'epoca coloniale ovunque, e un "casco histórico", il vecchio centro che si estende alle spalle del lungofiume, ancora intatto. Colonia è da sempre invasa dai turisti e soprattutto dai gitanti porteños durante i fine settimana: nei giorni feriali torrna a essere un godibile, sonnolento centro dove il tempo sembra essersi fermato. Ancora poche ore prima di salire sul Buquebus che mi riporterà in Argentina e un arrivederci a questo Paese amabile, discreto, tutto sommato sereno e che andrebbe rivalutato come meta di viaggio. Alla prossima e, ora, verso le Ande!Lungofiume

martedì 20 ottobre 2009

Bonanza tra i gauchos e la delizia del "Massini"


La PonderozaFLORIDA - Ultima giornata di viaggio prima di riconsegnare l'automobile a Montevideo: dopo la notte trascorsa a Tacuarembó, percorro verso Sud la provincia omonima, quella forse più agreste, famosa per il suoi gauchos. E sono numerosi, nel capoluogo, i negozi esclusivamente dedicati a loro: d'altra parte per un centinaio di chilometri non esistono Tremende vacchecentri abitati degli di questo nome: raro agglomerato di case, più numerose le scuole rurali, queste sì presenti con buona regolarità. Da per parte sua, Tacuarembó, che si vanta probabilmente a sproposito di essere la patria di Carlos Gardel, è un centro gradevole e, con i suoi 50 mila abitanti, di rispettabili dimensioni, per questi paraggi. Anche questa parte centrale del Paese, come la zona tra Roche e Minas, è un dolcemente ondulata e la varietà del paesaggio la rende particolarmente suggestiva. E pure qui, un paradiso per gli animali: osservando l'espressione di vacche, pecore, cavalli, nandù (gli struzzi americani), qualche maiale, si può senz'altro affermare che siano felici. Come probabilmente se la passano ancora bene i membri della famiglia Cartwright, Ben e i figli Orso, Joe e Adam, a giudicare dallo stato della loro "Ponderoza" resa celebre dalla interminabile serie dei telefilm Bonanza (foto in alto) Dopo un centinaio di chilometri lungo la Ruta Nacional 5 che porta nella capitale, si diparte una deviazione verso San Gregorio de Polanco,San Gregorio de Polancopiacevolissimo centro turistico-balneare sulle rive del lago artificiale Rincón de Bonete, formato dal Rio Negro, e che si estende per più di una cinquantina di chilometri. A guardare le spiagge, sembra di essere ai Caraibi: eppure siamo in mezzo alla Pampa. Altro centro balneare, un po' meno pittoresco ma al contempo   importante centro agricolo e d'allevamento, come suggerisce il suo nome, Paso de los Toros, a un'ora di distanza verso Sud. Anche per giungere fin qui chilometri e chilometri senza vedere un'auto, quando ci si incrocia ci si saluta, come anche quando si incontra qualche gaucho che sta recuperando vitelli o cavalli troppo intraprendenti e che tentano qualche scampagnata al di là dei recinti. Mi è capitato, cosa più comune in Argentina dove le estancias sono molto più vaste che non qui, di vedere piccoli velivoli parcheggiati tra i macchinari, pronti all'uso fare un giro d'ispezione sopra i campi. Ancora una breve sosta a Durazno, sulla riva sinistra del fiume Yi, affluente del Rio Negro, fondata dai portoghesi nel 1821 e nodo nevralgico per le comunicazioni nel centro del Paese, coi suoi due poderosi ponti. Lì, nella piazza circondata da sicomori della Cattedrale, ho gustato il migliore tra i deliziosi e perversi dolci ipercalorici prodotti in Uruguay: il "Massini": due Bismantova uruguagiafette di pan di Spagna, sode e ricche di uova, coperte di un sottile strato di caramello e in mezzo crema Chantilly. Meraviglioso, anche con una temperatura che ieri cominciava ad avvicinarsi ai trenta gradi finalmente. Infine sono giunto a Florida, capoluogo del dipartimento omonimo, dove il 25 agosto del 1825 venne dichiarata l'indipendenza del Paese, l'ultimo importante centro agricolo a meno di centro chilometri da Montevideo e dalla sua zona industriale. Un'altra cittadinadall'impronta coloniale, vivace ma al contempo dai ritmi di vita molto rilassati, dove ho trascorso la serata chiacchierando coi proprietari del ristorante "8 negro" (nel senso del colore delle carte), risalente al 1946 e con mobili d'epoca: una meraviglia. A proposito delle elezioni di domenica loro puntano sulla vittoria del Frente Amplio. Benché al ballottaggio. Me lo auguro. Per loro e per questo Paese bello, accogliente, interessante e molto civile. (Qui sopra a sinistra, una copia in miniatura della Pietra della Bismantova. Nell'emisfero australe)

lunedì 19 ottobre 2009

Sì, viaggiare...


Verso Tacuarembó...verso Tacuarembó, terra dei gauchos, nel Nord dell'Uruguay, sperando che il poderoso mezzo che mi ha trasportato fin qui, una Chevrolet Celta (insomma: una Opel Corsa) non mi lasci a piedi. Sulla Ruta n° 8 ho trovato più gente a cavallo che automobili, e quelle poche erano bardate a festa con le insegne dei partiti in lizza per le presidenziali di domenica prossima: era l'ultimo fine settimana di campagna elettorale, e nel Paese si sono scatenate le "carovanas", ossia cortei di automobili e camionette che fanno a gara a chi fa ha la musichetta più accattivante e rumorosa e gli striscioni più lunghi.Estancia EsteroNemmeno l'ombra di un incidente, ma nemmeno di un battibecco. Tra avversari, senza risparmiarsi battute al vetriolo e critiche sui programmi (e non sulle ciance o i calzini turchese), ma corretti e perfino flemmatici, questi uruguaiani. Esito incerto: favorita l'accoppiata Mujica-Astori, del Frente Amplio, progressista, ma solo se riesce a vincere al primo turno. Se si dovesse arrivare al ballottaggio, potrebbe avere la meglio il duo del Partido Nacional Lacalle-Larrañaga, a cui si aggiungerebbero (ma non è detto) i voti andati al primo turno al candidato del Partido Colorado Pedro Bordaberry, accreditato del 15% circa. Io punto su una vittoria al primo turno del Frente Amplio, che con Tabaré Vázquez ha portato fuori il Paese dalla crisi, intraprendendo una serie di riforme strutturali profonde e coraggiose e di lungo respiro. Da quel che posso fiutare, mi sembra che la maggioranza degli urugayani siano per la continuità in questo senso. Spero di vedere giusto. (Al centro: estancia lungo il percorso. Sotto: una fiera di bestiame, con i gauchos autentici in azione)Fiera del bestiame

sabato 17 ottobre 2009

Uruguay del Nord-Est: dalle spiagge alle cave

Barra de ValizasMINAS - Una volta lasciato alle spalle il pretenzioso e improbabile complesso architettonico-urbanistico di Punta del Este, ad uso e consumo esclusivo dei danarosi presenzialisti e puzzoni in delirio esibizionista, ed entrato nella provincia di Rocha, la costa atlantica uruguayana, avvicinandosi al Brasile, conferma le aspettative che nutrivo dopo aver seguito alla lettera i suggerimenti dell'amico Akul Tico, uno che l'America Latina la conosce bene per viverci da una ventina d'anni, e che aveva fatto all'incirca il mio stesso itinerario un anno fa. "Noleggia una macchina in Uruguay: non sono ladri e le strade sono buone. Vai a vedere come si divertono i decerebrati in quel cesso di Punta del Este e fai rotta verso Rocha. Troverai le nostre spiagge com'erano negli anni Cinquanta, però con l'Oceano. E, all'interno, i gauchos. Quelli veri: non quelli che si mettono in posa per i turisti. Ché lì, tanto, non ci vanno". Detto e fatto: sapevo di potermi fidare. Avevo pernottato, due sere fa, a La Paloma, già un centinaio di chilometri a Est del Gallaratese sull'Atlantico, e mi ero ritrovato in una specie di posto di frontiera, con una vocazione turistica allo stato larvale, considerata la stagione ancora a venire, e comunque di tutt'altro genere rispetto a quella della costiera della capitale, di Piriapolis, Maldonado e Punta del Este. Dato che la stagione balneare inizierà tra due mesi, sono aperte soltanto le attività commerciali legate alla sopravvivenza di chi ci vive e di qualche viaggiatore: nei più altisonanti luoghi nominati prima, nemmeno quello. Già mi sentivo comunque rivivere, ed era soltanto un assaggio, perché ieri, in una giornata di tempo splendido e con una temperatura finalmente accettabile, ho proseguito  in direzione Est-NordEst sostando a La Pedrera, Barra de Valizas, poco oltre il celebre Cabo Polonio (raggiungibile solo a piedi o con fuori strada, dove si trovano colonie di otarie, leoni marini e al largo del quale in questa stagione si possono avvistare anche le balene franche, in periodo di accoppiamento) e infine Punta del Diablo. Autentici paradisi per surfisti, ma anche per chi ama sole e mare (per quanto occorra starci all'occhio: non è il mare nostrum), a contatto con la natura e in un ambiente umano ancora autentico e non spersonalizzato. Niente lussi: bisogna adattarsi. Ma c'è tutto lo strettamente necessario. Posti che non piacciono a tutti, per fortuna, ma che mi sento di consigliare caldamente a chi legge questo blog, se capitasse in quella zona. Lungo la costa sono risalito fino a Chuy, città di confine con il Brasile, Stato di Rio Grande do Sul, la cui capitale è Porto Alegre. Classica località di frontiera tra un Paese gigantesco e ricco (e quella parte del Brasile lo è molto molto al di spora della media) e uno piccolo e più povero. Il regno del duty free e del "tarocco", insomma, per la gioia dei riccastribrasileiros, ben forniti di valuta forte (e il real si è rivalutato non poco sul dollaro, negli ultimi due anni) rigorosamente a bordo di SUV giganteschi, a caccia di occasioni e, in mancanza, di carburante a prezzo favorevole per qualche centesimo.Fortín de San MiguelA neanche 10 chilometri di distanza, il Fuerte San Miguel, costruito nel 1734 durante il conflitto tra Spagna e Portogallo che si contendevano ai tempi la "Banda Oriental" e ancora intatto, all'interno di un parco nazionale in zona militare a ridosso del confine e, di fronte, il "Fuertín de San Miguel": un'estanciain stile coloniale, dove sono riuscito incredibilmente a trovare alloggio nonostante vi si svolgesse un convegno di giudici e avvocati uruguyani. Un paradiso, trattato come un pascià, e si mangia pure bene. Il prezzo, tutto incluso? 35 €, n Italia una cena a buon mercato. Questa mattina mi sono diretto verso Nord, all'interno del Paese: zona pressoché sconosciuta ai viaggiatori e poco abitata: durante una tratta di cento chilometri ho contato di aver incontrato esattamente dieci macchine, una ogni dieci minuti. La prima tratta, confinaria con il Brasile, è quasi piatta, talvolta acquitrinosa: ibañados. Molto simile alla zona mesopotamica argentina (quella tra i fiumi Uruguay e Paraná), la pampa humeda, insomma, un paradiso in Terra per bovini, ovini, cavalli. E anche per me: sarò che sono nato in pianura e tra le acque, ma è questo, da sempre, che sento come il mio "panorama dell'anima", se ce n'è uno. Quello in cui mi sento felice e nella mia dimensione. Non arrivo nemmeno a commuovermi: sorrido come un idiota e mi sento a casa. Mi succede nella Bassa lombarda, in Emilia, nella Laguna veneziana e nella Bassa Friulana. Le stesse identiche atmosfere di qui, gli stessi cieli infiniti, li ho visti in quel poco che è rimasto della pusztaungherese, nelle "terre basse" fiamminghe. Nelle pampas argentine, all'ennesima potenza e, qui, uguale. Se da queste parti si aggiunge l'elemento umano, in buona parte di origine molto prossima a quella nostrana, il senso di familiarietà è presto spiegato. Non c'è solo allevamento, in senso estensivo, ma anche coltivazione: questa è anche zona di riso, naturalmente, e non mi stupisce che un riso patna denominato "blu" venga prodotto e perfino confezionato a Lascano in quantità non indifferenti. Quello che sconcerta, è trovare anche i palmeti, ma si tratta di un habitat che evidentemente è congeniale a una fauna che da sé costituisce uno spettacolo: uccelli di ogni tipo, dai trampolieri alle anatre selvatiche, ai falchi, alle poiane. Ogni volta mi sorprendo a scoprire che gli alberi aEstancia Esteromaggiore popolazione aviaria, e quelli da cui proviene il cinguettare più insistente, sono quelli popolati da schiere di pappagalli ben nutriti e impertinenti, rapidissimi e imprendibili: altro che animali da gabbia. Più avanti, ai confini tra le province di Rocha e Maldonado, il paesaggio si fa più dolcemente ondulato, gli stagni lasciano il posto a cave d'argilla, e non mancano forni di cottura di mattoni; aumenta anche il numero di pecore, dalla lana estremamente pregiata, che si incontrano. Sempre allo stato brado: non "cattive" e aggressive come le sorelle patagoniche, ma comunque emancipate rispetto allo standard di quelle europee. Simili a quelle irlandesi: animali che non amano il gregge. Più in là ancora, già verso la provincia di Minas, il panorama si fa quasi carsico e non è un caso: minas sta per cave (di granito e marmo), oltre che miniere, e non è sorprendente, a pochi chilometro dal capoluogo, scoprire un posto che si chiama "Nueva Carrara". Piacevolissima Minas, capoluogo di questa provincia, allegra e vivace città dalla pianta rigorosamente ortogonale, popolata de gente ospitale, simpatica e alla mano, come mi era stato anticipato. I miei suggeritori sono stati perfetti, conto di essere attendibile anch'io per chi mi legge.